Nell’introdurre Geopolitica di Carlo Terracciano (AGA Editrice, 2020) abbiamo segnalato come, in Italia, la geopolitica – che negli anni ’30-’40, con Giorgio Roletto e Ernesto Massi, aveva conosciuto la sua epoca d’oro – fosse caduta nell’oblio, persino ostracizzata perché ritenuta “scienza nazifascista”: fu appunto Carlo Terracciano, nei primi anni ’80, a riportarla in auge, quanto meno negli ambienti culturali non conformi all’ideologia dominante; e solo nel 1993, con la rivista “Limes” fondata da Lucio Caracciolo, il tema della geopolitica viene portato all’attenzione di un pubblico un po’ più vasto. Oggi, a partire dal conflitto in Ucraina, non c’è media che non la tratti con una caterva di sedicenti esperti che affollano redazioni della carta stampata e della TV.
Anche nella Russia sovietica la geopolitica, considerata una scienza “borghese” e persino “fascista”, era misconosciuta, diversamente dall’Inghilterra e dagli USA dove invece, fin dai suoi esordi, la geopolitica ha potuto contare su scuole e accademie. Anzi, proprio negli Stati Uniti la geopolitica è stata alla base delle speculazioni ideologiche dei principali influencer culturali e politici del totalitarismo demoliberale: basti pensare a Zbigniew Brzezinski e soprattutto a Henry Kissinger, che proprio sulle basi di una sua visione geopolitica ha fondato i princìpi per l’assetto del Nuovo Ordine Mondiale a partire dalla fine degli anni Sessanta fino a tutti gli anni Ottanta. Sarà sempre sulla base di una precisa visione geopolitica che la concezione di ordine mondiale statunitense verrà riformulata, aprendo la strada alle guerre in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia e Siria subito dopo aver “normalizzato” il Sud America (a cominciare da Panama con il noto affaire Noriega) e aver dato nuovo impulso alla strategia NATO, investita di una rinnovata missione che ha la Cina, dopo la Russia, come obiettivo di “normalizzazione”.
Lo si deve proprio ad Aleksandr Dugin, a partire dagli anni Novanta, se la geopolitica ha potuto essere conosciuta e diventare materia cardine del dibattito culturale in Russia: questo testo che presentiamo ai lettori italiani, ne costituisce l’incipit. Prima di allora, il nulla o quasi. Un testo che ha ben presto travalicato i confini nazionali, un testo che è «sopravvissuto a molte ristampe ed è stato fonte di un oceano di imitazioni e di veri e propri plagi (…), ed è stato tradotto in molte lingue (turco, arabo, georgiano, rumeno, spagnolo ecc.)», un testo che nella «sua traduzione in turco nei primissimi anni 2000 ha avuto un enorme impatto sul pensiero strategico e politico di quel Paese», come annota Aleksandr Dugin nella sua Postfazione (qui a pag. 655, Postfazione che si raccomanda al Lettore di leggere in anteprima per meglio inquadrare e contestualizzare questa edizione italiana).
I media occidentali – quelli italiani in particolare – presentano Aleksandr Dugin come il consigliere di Putin, una sorta di Rasputin del Terzo Millennio, con il palese intento di mostrificare tanto l’uno quanto l’altro, assegnando così a Dugin un’importanza negativa relativamente a quella che per loro è una nefasta posizione politico-ideologica della nuova Russia: Dugin, alla fine, sarebbe, secondo la propaganda occidentale, il principale teorico dell’“aggressione” russa dell’Ucraina, un Paese presentato come libero, pacifico e democratico. In realtà, posto che fosse vero il ruolo di “consigliere putiniano”, tale ruolo sarebbe sicuramente molto meno importante di quanto in effetti è la sua influenza in campo culturale, tanto in Russia quanto in Occidente presso le formazioni antagoniste del totalitarismo liberale di matrice atlantica: il pensiero di Dugin spazia in campo filosofico, geopolitico, etnosociologico e sacrale esercitando un’influenza pervasiva e addirittura virale che in Russia ha contaminato positivamente politici, intellettuali, filosofi, economisti, militanti e militari. E, a fronte del nulla che lo precedeva in campo geopolitico, il presente libro sta qui a dimostrarlo.
Uno dei principali meriti di questo testo sta nel suo essere andato oltre la “lettura” scolastica della geopolitica, oltre la sua canonica ortodossia. Ce ne si rende ben conto là dove Dugin tripartisce la geopolitica, ossia all’elaborazione classica di quella che qui è definita “Geopolitica 1” accosta la “Geopolitica 2” e la “Geopolitica 3”, coniugando la sua sapienza filosofica, etnosociologica e sacrale alla “materia” della geopolitica. Dopodiché, da vero uomo di cultura quale è, Dugin nella sua Postfazione per questa edizione Italiana del suo testo, specifica di essere andato oltre, non senza alcune rettifiche, rispetto alla suoi primi approcci al tema geopolitico riaffermando però che qui, in Geopolitica – Manuale della scienza delle civiltà, si riscontrano i fondamentali della sua elaborazione. “Cultura” deriva da colere, “coltivare”, e la coltivazione, in campo agricolo come in quello intellettuale, è un agire perenne, continuo, dinamico e costante, non certo cristalizzazione o stagnazione. Diversamente dalla gran parte degli intellettuali assunti come maestri dal moderno e dal post-moderno, anche nel campo dell’elaborazione geopolitica Dugin dimostra tutta la coerente dinamicità del suo pensiero. E questo libro ne rende piena testimonianza. Un testo fondamentale e imprescindibile per chi vuole interessarsi alla geopolitica.